65. Enrico Borghi – Particelle indistinguibili


Particelle indistinguibili.

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64. Enrico Borghi – Flusso di particelle attraverso uno schermo dotato di fessure


Flusso di particelle attraverso uno schermo dotato di fessure.

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63. Enrico Borghi – Termodinamica classica


• Termodinamica classica
In questo studio vengono presentati i punti che caratterizzano la Termodinamica classica, una disciplina che descrive i modi in cui avvengono scambi di calore, o trasformazioni di calore in lavoro, o trasformazioni di lavoro in calore in corpi individuati fenomenologicamente da grandezze come pressione, volume, temperatura, entropia….
La Termodinamica classica è passata, nel suo sviluppo storico, attraverso periodi in cui ha cercato di definire concetti e chiarire problematiche come:
– la distinzione fra calore e temperatura;
– l’esistenza del calorico, fluido dotato di caratteristiche fisiche non facilmente precisabili che si riteneva dotato della proprietà di trasferire il calore fra corpi;
– l’equivalenza calore-energia (esperimento di Joule basato sul cosiddetto “mulinello di Joule”, 1850);
– la definizione di energia interna di un sistema termodinamico;
– la definizione di entropia.
Tuttavia la presentazione che in questo studio viene data della Termodinamica non è storica, cioè non si interessa a spiegare come, in più di un secolo, si è cercato di risolvere questi problemi, ma è logica, cioè prende l’avvio dall’assunzione che le sue basi siano assiomaticamente definibili mediante alcuni Principi (dedotti da esperimenti e osservazioni e formulati con il contributo di una vasta schiera di fisici: R. Boyle, B. Clapeyron, R. Clausius, H. von Helmoltz, J. Joule, Lord Kelvin, R. Mayer, W. Nernst, S. Poisson, W. Rankine, B. Thompson…) riferendosi ai quali è possibile descrivere un gran numero di fenomeni termodinamici come, ad esempio, lo scambio naturale di calore fra corpi e definire le modalità del funzionamento di sistemi in grado di ottenere lavoro dal calore come la macchina termica studiata da S. Carnot.
Questo modo logico/sintetico di presentare la Termodinamica deve essere inteso come un mezzo per facilitare la comprensione degli aspetti-chiave di questa disciplina rendendo così più agevole lo studio di specifici fenomeni termodinamici.

La Termodinamica classica si è successivamente evoluta, grazie ai lavori di L. Boltzmann, in
• Termodinamica statistica
(v. le Appendici A,B,C,D,E dello studio “Lo spettro del corpo nero secondo la Meccanica statistica” presente in “fisicarivisitata”)
che ha permesso di creare una base teorica organica in grado, ad esempio, di rendere facilmente comprensibile la distinzione fra calore e temperatura, di rendere chiaramente inutile il concetto di calorico, e di legare il concetto di entropia alla struttura microscopica dei corpi.

In tempi più recenti la Termodinamica statistica si è ulteriormente evoluta in
• Termodinamica statistica quantistica
(v. lo studio “Meccanica statistica quantistica” presente in “fisicarivisitata”).

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62. Enrico Borghi – Quadro riassuntivo della Meccanica quantistica non relativistica


Meccanica quantistica non relativistica

 

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61. Enrico Borghi – L’effetto Sagnac


In prossimità del bordo di una tavola circolare in grado di ruotare attorno a un asse passante per il centro è collocata una sorgente in grado di emettere due raggi luminosi e di inviarli in versi opposti, mediante riflessioni su specchi opportunamente collocati sul bordo della tavola, su percorsi aventi forma di spezzate semicircolari centrate sull’asse di rotazione.                                                                                                                                                Al termine dei percorsi i due raggi si ricongiungono e diviene possibile confrontare le loro fasi, ovvero i loro tempi di arrivo.                                                                                                     Se la tavola non sta ruotando, i due raggi, che hanno proceduto su percorsi uguali, si ricongiungono con uguali tempi di arrivo.                                                                                      Se invece la tavola sta ruotando, il percorso del raggio che si muove concordemente col moto della tavola è più lungo di quello del raggio che si muove in verso opposto: questo fatto genera una differenza fra i tempi di arrivo che costituisce l’essenza dell’effetto Sagnac, dal nome del fisico francese che studiò questo fenomeno nel 1913.

Dunque la differenza fra i tempi di arrivo è legata al moto rotatorio della tavola.          Poiché è possibile misurarla, diviene possibile constatare l’esistenza e misurare l’entità di una rotazione del supporto sul quale è montato il dispositivo di Sagnac, ed è per questo che strumentazioni basate sull’effetto Sagnac, come ad esempio gli interferometri ad anello, sono da tempo entrate nell’uso pratico: ad esempio, un interferometro montato su un aeromobile può mettere in evidenza una rotazione anche molto piccola dell’assetto dell’aeromobile e, di conseguenza, una deviazione di questo dalla rotta fino ad allora seguita.

In questo studio l’effetto Sagnac viene descritto sulla base della teoria della Relatività speciale, in particolare sul concetto ad essa associato di tempo proprio.

 

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60. Enrico Borghi – Particella soggetta a potenziale costante a tratti: descrizioni classica e quantistica


In questo studio ci proponiamo di integrare l’equazione di Schrödinger per una particella in movimento dotata di energia potenziale dovuta a potenziali caratterizzati da forme diverse descrittive di altrettanti fenomeni fisici che esamineremo, per confronto, anche dal punto di vista della Meccanica classica.

Integrare l’equazione di Schrödinger per una qualsivoglia energia potenziale comporta il più delle volte problemi matematici di non facile soluzione.

Per alleggerire il carico delle difficoltà matematiche si può:

1)  cercare di approssimare l’espressione dell’energia potenziale facendole assumere un andamento costante a tratti;

2)  considerare una soluzione stazionaria dell’equazione di Schrödinger , cioè sostituire il pacchetto d’onde rappresentativo della particella con una sola componente del pacchetto che è costituito, come è noto, dalla sovrapposizione di soluzioni stazionarie.

Per ciò che riguarda il punto 1 occorre, ovviamente, che l’energia potenziale, divenuta costante a tratti, non si allontani troppo dalla sua forma originale.

Il punto 2 richiede qualche precisazione.

Infatti, se consideriamo una sola componente del pacchetto d’onde associato alla particella, nei tratti in cui l’energia potenziale è costante la particella possiede un momento costante ben definito e quindi, per il Principio di Indeterminazione, una posizione del tutto indefinita alla quale è associata una probabilità di posizione che si mantiene costante  nel tempo, mentre però il pacchetto d’onde si sta muovendo.

Dunque considerare una sola componente del pacchetto d’onde complica il processo di interpretazione fisica degli oggetti matematici in gioco ma, in ogni caso, è possibile dimostrare che i risultati fisicamente accettabili e significativi che si possono ottenere considerando un solo elemento del pacchetto d’onde sono in accordo con quelli che si possono ottenere considerando l’intero pacchetto.

Viene così confermato che anche da una descrizione così semplificata dei fenomeni che esamineremo si possono ottenere informazioni di notevole importanza che la Meccanica classica non è in grado di dare e che vengono verificate con grande precisione dall’esperienza.

La Meccanica quantistica trova così una ulteriore prova della sua validità ed efficacia.

 

 

 

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59. Enrico Borghi – Meccanica statistica quantistica


I metodi della Meccanica statistica che vengono presentati in questo studio possono essere applicati a sistemi di particelle che si trovano in condizioni di equilibrio termodinamico. Un sistema di particelle si trova in condizioni di equilibrio termodinamico se è dotato di temperatura uniforme,  non è soggetto a forze aventi risultante diversa da zero e non è  soggetto a variazioni di massa, composizione chimica e concentrazione.                                 Il sistema in equilibrio termodinamico che viene preso in considerazione (possiamo, ad esempio, pensare a un gas) è costituito di particelle identiche (molecole) in movimento entro un contenitore. Le particelle si suppongono non interagenti, a parte gli eventuali urti reciproci. Gli urti reciproci, o gli urti contro le pareti del contenitore che racchiude le particelle, si considerano perfettamente elastici cosicché non modificano l’energia associata al moto delle particelle.

In Meccanica classica si assume anche che le particelle siano identiche ma distinguibili, cioè tracciabili, perché in ogni istante occupano nello spazio delle fasi un punto di una traiettoria che parte da una posizione iniziale in una direzione definita da una velocità iniziale, essendo posizione e velocità iniziali entrambe distintamente precisabili per ogni particella, così come lo sono in ogni istante successivo.                                                       Questa descrizione del sistema di particelle, ognuna individuata da un punto mobile nello spazio delle fasi, è adeguata in ambito classico, ma non può essere usata in Meccanica quantistica perché in quest’ultima il Principio di Indeterminazione impone che ad ogni particella sia associato non un punto dello spazio delle fasi, ma una celletta di questo spazio dotata di dimensioni finite.

Poiché intendiamo passare dalla Meccanica classica alla Meccanica quantistica conviene preparare il passaggio riconfigurando la descrizione classica. La riconfigurazione si ottiene associando a ogni particella non un punto dello spazio delle fasi ma una celletta di dimensioni infinitesime cioè tendenti, al limite, a ridursi a un punto.                                     In ambito quantistico tali dimensioni infinitesime verranno considerate prima del limite, cioè verranno considerate finite e quindi non verranno ridotte a un punto.

Rimaniamo per ora in ambito classico, con la modifica dovuta all’introduzione delle cellette infinitesime.

Nello studio del sistema di particelle il passaggio dalla Meccanica classica alla Meccanica statistica classica, che è in pratica reso necessario dal grandissimo numero di particelle che sono presenti in   qualunque ordinario sistema materiale, comporta l’abbandono della descrizione del microstato del sistema, cioè di uno stato definito nello spazio delle fasi nel quale vengono considerate cellette infinitesime (una celletta per ogni particella), e l’introduzione della descrizione del macrostato, anch’esso definito nello spazio delle fasi e considerato costituito di estensioni tutte uguali, ciascuna composta di cellette.               Ogni celletta può contenere una particella dotata di una energia prossima all’energia che si assume associata all’estensione di cui la celletta fa parte.                                                             Il problema da risolvere è calcolare il numero dei modi in cui le particelle possono essere distribuite nelle estensioni dello spazio delle fasi. Ciascun modo si ottiene immaginando di ridistribuire le molecole rispettando i vincoli del loro numero totale e della loro energia totale e tenendo conto del fatto che le ridistribuzioni che avvengono fra particelle collocate in cellette contenute nella medesima estensione non devono essere prese in considerazione perché non corrispondono a variazioni dello stato energetico dell’insieme. Possiamo così determinare la probabilità di ciascuna distribuzione e calcolare quale distribuzione ha maggior probabilità di realizzarsi.                                                                  Tale distribuzione è quella che corrisponde allo stato di equilibrio termodinamico dell’insieme di particelle.

E’ questa, presentata in rapida sintesi, l’intuizione che ha permesso a L. Boltzmann di porre le basi della Termodinamica statistica classica.

L’ulteriore passaggio alla Meccanica statistica quantistica, che è l’argomento di cui si occupa questo studio, si basa ancora sul concetto di macrostato costituito di estensioni, ma ora a queste possono essere associate solo le energie permesse alle particelle nel contenitore entro il quale sono racchiuse (v. l’Appendice B di questo studio) e occorre anche tener conto, come si è ricordato più sopra, del Principio di Indeterminazione, che fissa nello spazio delle fasi una dimensione finita minima, e quindi non più infinitesima, per ogni celletta.                                                                                                                           Inoltre le particelle quantistiche del sistema meccanico che si prende in considerazione sono ancora identiche, ma non sono distinguibili perché non sono tracciabili in quanto non possono avere, né inizialmente né in alcun istante successivo, una posizione e una velocità entrambe ben definite. Se, ad esempio, una particella viene trovata in un certo istante in una posizione precisa, in quel medesimo istante la sua velocità è completamente indeterminata perciò la particella non è tracciabile.                                                            Questo fatto pone sulla funzione d’onda del sistema di particelle un vincolo: essa deve essere o simmetrica o antisimmetrica (v. l’Appendice A di questo studio).                          Una funzione d’onda simmetrica descrive particelle con spin intero (bosoni); una funzione d’onda antisimmetrica descrive particelle con spin semiintero (fermioni).

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58. Enrico Borghi – La diffrazione degli elettroni


In questo studio viene presentata l’ipotesi formulata da de Broglie nel 1924 sulla natura ondulatoria della materia.

L’ipotesi prende l’avvio dalla constatazione che alle onde luminose possono essere associati quanti di radiazione (ovvero i fotoni messi in evidenza dall’effetto Compton), constatazione che de Broglie propone di estendere, invertendola, alle particelle materiali assumendo che ad ogni particella possa essere associata un’onda dotata di una frequenza legata all’energia della particella e di un numero d’onde legato al momento della particella. Qualche anno più tardi (1927) l’ipotesi di de Broglie si mostrava adatta a spiegare il risultato di un esperimento condotto da C. Davisson e L. Germer nel quale un fascio di elettroni inviato attraverso una lastra di cristallo di nichel dava origine a figure di diffrazione, non diversamente da quanto succede facendo attraversare la lastra da radiazione elettromagnetica (raggi X).                                                                                  Dunque un fascio di elettroni si comporta, in alcune circostanze, come se, invece che di particelle, fosse costituito da onde.                                                                                             Della esistenza di questo modo di presentarsi delle particelle di materia non si ha percezione nella Meccanica dei corpi macroscopici perché esso si manifesta quando la lunghezza d’onda associata al corpo è dello stesso ordine di grandezza degli ostacoli che causano la diffrazione, e per un ordinario corpo macroscopico tale lunghezza d’onda è estremamente piccola, più piccola (di molti ordini di grandezza) di una tipica distanza atomica, che è dell’ordine dell’angstrom.

Rimane da precisare quale è il significato delle onde associate alle particelle.

Negli anni 1925-26 l’intuizione di de Broglie prende corpo nella Meccanica di Schrödinger e nella associata equazione di Schrödinger che, una volta risolta, fornisce la cosiddetta funzione d’onda, che può essere riferita o alla posizione o al momento di una particella. Tale funzione viene interpretata come ampiezza di probabilità di posizione o di momento di una particella e il quadrato del modulo dell’ampiezza di probabilità fornisce la densità di probabilità di posizione o di momento di una particella (Max Born, 1926).              Dunque le onde associate alle particelle sono onde di probabilità.

Una presentazione del modo in cui questo concetto si è fatto strada in Meccanica di Schrödinger si trova nel paragrafo 1.2.7 della Seconda Parte dello studio “Reinterpretare l’Elettromagnetismo maxwelliano per spiegare la Meccanica quantistica”.

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57. Enrico Borghi – L’effetto Compton


L’effetto Compton si manifesta nei fenomeni in cui radiazione elettromagnetica (raggi X o raggi gamma) viene diffusa attraverso un corpo materiale, ad esempio una lamina di grafite.                                                                                                                                                     La radiazione interagisce con la struttura elettronica del corpo uscendone con una lunghezza d’onda che risulta essere maggiore della lunghezza d’onda in ingresso di una quantità che dipende dalla direzione dei raggi di uscita rispetto alla direzione dei raggi di ingresso.                                                                                                                                              Non vi è modo di spiegare questo fenomeno basandosi sull’Elettromagnetismo maxwelliano.                                                                                                                                        Nel 1923 A. Compton riprese una assunzione di Einstein riguardante la natura della radiazione e.m. formulata nel corso di un suo studio sul fenomeno fotoelettrico, nel quale ipotizzò che tale radiazione dovesse essere considerata non un oggetto fisico continuo, ma un flusso discreto di quanti, che ora conosciamo come fotoni, dotati di una frequenza uguale a quella della radiazione.                                                                                             Compton osservò che, se la diffusione della radiazione in attraversamento del corpo poteva essere considerata una conseguenza dell’urto di fotoni contro gli elettroni della struttura atomica della sostanza, la spiegazione del fenomeno poteva essere data con facilità.    Infatti bastava pensare che un fotone, urtando contro un elettrone, gli comunicasse parte della sua energia che così subiva una diminuzione. Ma l’energia di un fotone è data dal prodotto della costante di Planck per la frequenza del fotone: una diminuzione di energia causa una diminuzione di frequenza e quindi dà origine a un aumento della lunghezza d’onda, come l’esperienza mostra.                                                                                         L’analisi dettagliata del fenomeno basata sulla legge di conservazione relativistica della somma dei quadrivettori energia-momento di un fotone e di un elettrone considerata prima e dopo l’urto, permette di ritrovare nel modo più soddisfacente ogni aspetto di ciò che l’esperienza mostra.                                                                                                             Dunque quello che ora viene chiamato effetto Compton dà una conferma precisa e convincente della esistenza dei fotoni ipotizzati da Einstein. La radiazione e.m. risulta essere costituita di quanti non solo quando interagisce con la materia, ma anche quando si sposta nel vuoto alla velocità della luce.

Infine notiamo che sia l’effetto Compton sia l’effetto fotoelettrico, esaminato nello studio omonimo presente in “fisicarivisitata”, riguardano le conseguenze dell’urto di un fotone contro la struttura elettronica della materia.                                                                               Può essere interessante mettere in evidenza le differenze fra i due urti.                        Quando un fotone urta contro un elettrone scarsamente legato a un atomo e pressoché fermo (se lo si confronta col fotone) si ha l’effetto Compton se il fotone è così energetico (radiazione X o gamma) che non può essere assorbito dall’elettrone perché non verrebbe soddisfatta la condizione della conservazione dell’energia-momento delle due particelle (v. l’Appendice), e non si ha l’effetto Compton se il fotone urta contro un elettrone strettamente legato perché la differenza fra la lunghezza d’onda in uscita e la lunghezza d’onda in ingresso è inversamente proporzionale alla massa dell’atomo contro cui il fotone va, di fatto, a collidere e questo rende tale differenza prossima a zero; si ha l’effetto fotoelettrico se il fotone è meno energetico (radiazione ultravioletta o visibile) e può essere assorbito da un elettrone legato cosicché se la frequenza del fotone è superiore alla frequenza di soglia si ha espulsione dell’elettrone.

 

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56. Enrico Borghi – L’effetto fotoelettrico


Lo studio dello spettro del corpo nero ha introdotto a fianco dei metodi della Fisica newtoniana e maxwelliana un nuovo modo di indagare su alcuni fenomeni naturali, un modo che parte dalla constatazione che gli oggetti fisici sembrano possedere caratteristiche che dipendono dall’esperimento nel quale gli oggetti sono coinvolti.   Questo fatto è stato osservato nella radiazione elettromagnetica, che sembra essere costituita da onde se osserviamo fenomeni come la diffrazione e l’interferenza, mentre sembra operare per “quanti” discreti se studiamo l’interazione fra la materia e la radiazione contenuta in una cavità termostatabile basandoci sulla Teoria di Planck, la cui efficacia nella descrizione della suddetta interazione è stata mostrata nello studio sullo spettro del corpo nero presente in “fisicarivisitata”.

Un altro fenomeno che mette in gioco la dualità discreto-continuo e che è noto come effetto fotoelettrico è stato osservato nel 1887 da Hertz che, avendo fatto incidere radiazione elettromagnetica visibile sulla superficie di alcuni metalli alcalini, ha potuto constatare che tali metalli emettono elettroni con modalità che non è possibile spiegare facendo riferimento alle proprietà ondulatorie della radiazione.                                             Nel 1905 Einstein, basandosi su un metodo simile a quello usato da Planck nello studio dello spettro del corpo nero, non solo ottiene di descrivere il fenomeno dell’interazione fra radiazione e materia in modo del tutto soddisfacente, ma avanza anche la supposizione che l’energia della radiazione consista di quanti anche quando la radiazione si sposta nello spazio.                                                                                                                                                        I quanti di luce, che avrebbero in seguito preso il nome di fotoni, possiedono ciascuno un’energia calcolabile come prodotto della frequenza della radiazione per la costante di Planck.                                                                                                                                          L’effetto fotoelettrico è dunque un fenomeno causato da fotoni incidenti sul metallo che urtano contro gli elettroni presenti nel metallo.

Quale immagine fisica si può avere di un fotone non è precisabile, tuttavia si può mostrare che questo quanto di radiazione, non diversamente da una ordinaria particella elementare, possiede energia e quantità di moto nettamente precisabili e quindi la assunzione che possa essere considerato come una particella appare essere dotata di un saldo fondamento.

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